N.d.R: Malatesta… chi è costui?

Narrano antiche leggende che non sia mai esistito, che sia solo un’ombra.

Non è vero. Malatesta esiste e cammina insieme a noi. A noi cioè di Ellin Selae…

Malatesta è il nostro “critico ufficiale”.

Su ogni numero di Ellin Selae analizza con un rasoio tanto affilato quanto dotto i racconti (e solo i racconti) contenuti in quel numero.

La sua rubrica – che ebbe ufficialmente inizio dal numero 7 di Ellin Selae, si chiama “I Buoni e i Cattivi”, ed è la parte più letta di tutta la rivista (molti lettori confessano che prima leggono Malatesta, e poi tutto il resto).

È anche la più usata: contiene infatti molti e preziosi consigli e suggerimenti per tutti coloro che amano scrivere, e per coloro che amano leggere.

Leggere Malatesta significa sempre capire qualcosa in più della letteratura.

In occasione del decennale di Ellin Selae, caduto nel lontano 2001, Malatesta ha scritto l’articolo che segue in cui racconta di come la sua strada incrociò la nostra…

Se poi vorrete, potrete continuare a frequentarlo sulle pagine della nostra rivista

 

 

 

 

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Io e Ellin Selae

di Sebastiano Malatesta

 

La farò tutta questa strada

fino al punto esatto in cui si perde.

Ivano Fossati

 

Gli anni, chissà perché, corrono. Lo strano è che i mesi un po' meno, e meno ancora le settimane. I giorni al massimo camminano. Le ore sì e no strisciano, spesso lente come piante rampicanti.

Dunque si correva, allora. E correva anche il 1992. Pochissimo dopo la caduta del muro, a pensarci bene: praticamente a distanza di un'era geologica, tanto quanto basta per archiviare gli atteggiamenti più duri e allon­tanarti a sufficienza per poterci ridere sopra. Salvo però cedere alla lacrimuccia di fronte a certi fossili che credevi perduti e invece, Diobono, sopravvivono. È, tutto sommato, una faccenda di cuore. Lo dico perché sia ben chiaro l'argomento.

Incrociai Ellin Selae, appunto, da curioso. Forse perché nel mondo (ma questo lo sco­prii soltanto dopo) c'è spazio soprattutto per chi si somiglia. Una questione di interessi comuni, dirà qualcuno. Io preferisco pensare alla simpatia del caso, che ne sa sempre comunque più di noi. Non mi convinse, la rivista. C'era qualcosa che non andava, una sorta di buco che il mio istinto riconosceva e io invece no. A pensarci tutta la mia vita (tutte le vostre vite) funzionano così: dove­vamo lasciar perdere la biondina, dovevamo chiudere il colpo con la schiacciata, dove­vamo presentarci ugualmente a quell'esame anche se non sapevamo nulla. Invece no: la biondina ci ha delusi (fu senz'altro colpa soprattutto nostra, ma fa niente...), l'avver­sario ha sparato un lungo linea imprendibile, l'esame lo ha superato pure quel cretino di Giacomo. In ogni caso abbiamo deciso di fidarci della nostra ragione, abbiamo chiesto all'istinto di nascondersi sotto il tavolo e di stare buono. Ecco com'è finita. Ce lo siamo meritati, ci siamo meritati un po' tutto.

Beh, Ellin Selae era 'carina'. Ma non come l'amica della ragazza che ci piaceva. Anzi, a dire il vero era davvero bella, e ruspante. Possedeva quel fascino selvaggio che a noi cittadini mette sempre addosso stupore e tenerezza insieme. Quel fascino, insomma, che ci fregherà quanto prima. Decisi, per una volta, di seguire l'istinto, e di condividere un pezzo di strada con la rivista. Tanto, mi dicevo, esce ogni due mesi: sai le pagine che riesco a scrivere, in due mesi... È così: non fai in tempo a finire la frase dentro la tua testa  che hai già detto "ci sto".

Proposi alla redazione una rubrichetta di critica dei racconti pubblicati. Il tutto, si badi bene, senza avere le minime referenze e competenze per farlo. Ma forse l'istinto guidò anche l'assenso del diretùr... Rinunciai ad occuparmi della poesia, ufficialmente perché 'troppo personale per dare un giudi­zio', ma in verità per la consapevolezza del fatto che i poeti sono molto più vendicativi e violenti dei prosatori. Altro che luna e prati­celli.

All'inizio la cosa funzionava più o meno come nella Settimana Enigmistica: la critica si riferiva ai racconti pubblicati sul numero precedente, come un'ombra lunga si sten­deva su di loro a distanza di sessanta giorni. Era comodo, e in qualche modo sin troppo facile. Si poteva anche sparare a pallini, visto che il bersaglio era davvero grosso. Non c'era possibilità di replica per gli autori, se non in forma strettamente privata (pochi, a dire il vero, ne usufruirono). Così, dopo qualche numero, decidemmo di andare 'in diretta': racconto e critica belli appiccicati, in con­temporanea. E contemporaneamente il diretùr si trasferiva: se prima ci trovavamo a pochi chilometri di distanza, e passarci pezzi e idee risultava relativamente facile, ora lui si andava a nascondere in qualche dispersa collina langarola. Inutile che cerchi di descri­vervi i penosi tentativi di spedirci i files da un PC all'altro. Internet ce l'avevano in sette o otto in tutta Italia, e i modem viaggiavano soltanto se li lanciavi dalla finestra in un impeto di rabbia dopo l'ennesimo tentativo andato a vuoto. Era un mondo difficile, e credevamo ancora, da ingenui, nel mistero della tecnnologia.

Insomma, tentavamo di abbreviare le di­stanze temporali aumentando a dismisura quelle spaziali. Questo potrebbe farci riflet­tere, ma forse abbiamo visto troppe puntate di Star Trek per non fidarci dei paradossi.

Lo pseudonimo. Sebastiano Malatesta, voglio dire. Per me ancora oggi resta il nome più bello del mondo. Suona proprio come quello di un cavaliere dei tempi antichi, come quello dell'eroe senza macchia. Due quaterne di sillabe che promettono sfracelli ma insieme giustizia. Un nome coraggioso, nato però sotto la calda trapunta di un letto di casa, proprio un secondo prima del primo sogno. E inutile smentire: i colpi di genio coincidono inevitabilmente con i colpi di sonno.

Il cognome in effetti era piuttosto facile: chiunque abbia nei suoi cromosomi qualche simpatia libertaria lo riconosce come il più importante esponente dell'anarchismo ita­liano. Mi piaceva l'idea: senza regole fisse, senza padroni, senza paura. Suonava bene, anche se in effetti contraddiceva, in sé, la necessità stessa di celarsi dietro uno pseudo­nimo. Sebastiano, poi, chissà perché. Ad ogni padre vero mancano sempre almeno un paio di figli. Credo che Sebastiano, nel suo essere inventato, sia uno di loro.

Inutile dire che nel tempo ho preso sempre più le distanze da questo alter ego che si appropriava del mio senso estetico e delle mie manie, e che pure, stranamente, risul­tava tanto diverso da me. Una volta mi sono persino divertito a lasciare che Malatesta si degnasse di criticare un mio racconto. Fu piuttosto tenero, ad essere sinceri: mi grati­ficò di qualcosa tipo 6 meno meno, una sufficienza stiracchiata da volatori radenti, come del resto mi capitava al liceo.

Col tempo, dicevo, mi sono affezionato, e lui a me. Tanto che ora non posso scrivere due righe senza sentire da dietro la sua voce che attacca: "Ma dai, quell'aggettivo lì non funziona... e questa ripetizione... ma lo sai o no che esistono anche i sinonimi?". È diven­tato un pochino la mia condanna, perché da quando c'è lui la mia produzione letteraria si è estinta come quella specie di struzzo prei­storico di cui non ricordo mai il nome.

Per fortuna però ogni due mesi arriva la telefonata del diretùr: la riconosco dallo squillo imperativo, e sono io stesso a chie­dergli, come il partigiano che offre il petto al nemico, una scadenza esplicita e definitiva: che non ci siano proroghe o cedimenti. Ché ormai Malatesta, come la sua stessa onoma­topea lascia intendere, lavora soltanto su commissione, come gli scrittori‑artigiani di un Rinascimento che, ahimè, ha dimenticato per strada ogni illuminato mecenate. Invec­chieremo insieme, dunque: io, Malatesta ed Ellin Selae, tutti più stanchi e disillusi, più incarogniti con l'arte e con gli artisti che non ci lasciano mai riposare. Oppure, se lo prefe­rite, un po' più saggi di ieri e pronti a salire di nuovo in sella. In fondo, ovunque un pre­potente calpesti un congiuntivo e ovunque una subordinata ceda sotto i colpi impietosi di un vile, quello è il nostro posto.

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